Riflessioni sulla pratica del cutting

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ATTUALITÀ LACANIANA n 17

Alpes Editore, 2013

My favorite inside source,
I’ll kiss your open sores,
Appreciate your concern
You’ll always, stink, and burn
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Nella mia esperienza quotidiana in un reparto per adolescenti di un ospedale psichiatrico, riscontro una diffusione sempre maggiore delle pratiche del cutting agite in momenti di forte angoscia. Avevo gia’ precedentemente incontrato tale pratica, in modo sporadico, lavorando con soggetti tossicomani constatando che la pratica del buco si accompagnava spesso, specialmente in soggetti femminili, alla pratica dell’autolesionismo. Se all’inizio di carriera i segni della tossicodipendenza sono nascosti, progressivamente divengono poi delle insegne da esibire, mostrare e “glorificare”. I tagli sulle braccia, le “piste”, ma anche i piercing e i tatuaggi, fanno quindi parte di un corollario immaginario che serve al tossicodipendente a strutturare quell’immagine ideale da assumere come identificazione.
L’effetto di consolidamento di una identità mutuata da una pratica che lascia il segno non è pero’ “privilegio” dei soli tossicomani, né tanto meno, delle sole adolescenti ricoverate in un ospedale psichiatrico.
Il piercing e il tatuaggio, ma anche il cutting e il branding che sono pratiche di scarificazione molto più invasive e violente, sono entrate oramai a far parte delle pratiche estetiche giovanili, che nella banalizzazione della loro iscrizione ai fenomeni di moda, celano la loro profonda e inquietante valenza di disagio e malessere soggettivo. Pratiche che possono essere messe in stretta relazione con il Discorso del Capitalista e dispiegarsi come una conseguenza di tale Discorso.
Sappiamo che il Discorso del Capitalista promette la falsa democrazia della circolazione illimitata degli oggetti di consumo e del diritto di ciascuno al loro godimento. Il Discorso del Capitalista appare quindi come un circuito di riciclo nel quale “tutto si consuma” incessantemente, secondo un’espansione globalizzante, nell’illusione che in questa consumazione infinita la “mancanza a essere” che costituisce l’esistenza possa essere magicamente risolta. Per questo il Discorso del Capitalista, per funzionare, non deve solo promettere la risoluzione della mancanza, ma creare continuamente pseudo-mancanze che possano alimentare il circuito del consumo.
L’offerta maniacale dell’oggetto da consumare prende così il posto del divieto del Padrone. In questo senso l’oggetto a sembra stravolto dal suo essere oggetto-perduto essendo messo a disposizione sul mercato in una metamorfosi spettacolare che mobilita quella girandola di gadget che, dell’oggetto a, costituisce solo il suo aspetto “fasullo”.
Per quanto riguarda il tossicodipendente, l’oggetto-sostanza tappa ogni possibilità di mancanza obbligando di fatto il tossicomane a scavare nel reale del suo corpo un “buco” che ha la tripla funzione: di marcare il reale del corpo, di annodarlo sommariamente all’immagine identificatoria del tossicomane, e di permettere per questa via al soggetto di rappresentarsi con il significante “tossico”.
Una soluzione che, paradossalmente, serve al soggetto a sostenersi e che lo obbliga ad una lotta, ad un vero corpo a corpo, con il proprio fisico. Unica via per l’incontro con l’Altro.
Per questo il tossicomane esibisce le sue stigmate. Esibisce cioè la sua identificazione. È un martire, dominato dalla passione in quanto avere una passione è subire, è sofferenza. In questo senso il tossicomane è il martire del Discorso del Capitalista, ne testimonia la sua forza, la sua dominanza e allo stesso tempo si sacrifica e scarnifica nel disperato tentativo di evidenziarne i limiti mortiferi.
Tale analisi è in parte valida anche per chi, non tossicomane, marca il proprio corpo con tagli e/o simboli. Vale a dire che il soggetto “cutter” trova nella pratica la possibilità di nominarsi, anche se nella forma dimostrativa del: “sono colei che fa questo”.
L’ostentazione dei segni della tossicodipendenza e della pratica del cutting ha una forte relazione con la verità del soggetto. L’esposizione delle ferite del corpo sono tutt’uno con il tentativo di raggiungere la verità. Il corpo sanguinante, ferito, è un indizio della Cosa. È cioè esibito come trofeo, come spoglia della Cosa, che segnala una sconfitta che sta certamente dalla parte del soggetto. In buona sostanza cio’ che viene esposto è il godimento nel suo stretto legame con la Cosa. Un percorso glorioso che riecheggia nel XVII seminario di Lacan.
“Parlo del marchio sulla pelle, da dove si ispira in questo fantasma quel che non è altro che un soggetto che si identifica come oggetto di godimento. Nella pratica erotica che sto evocando, ossia nella flagellazione, per chiamarla con il suo nome nel caso vi siano qui degli arcisordi, il godere assume quella ambiguità secondo cui proprio al suo livello, e a nessun altro, si coglie l’equivalenza del gesto che marchia e del corpo quale oggetto di godimento.
Godimento di chi? È forse il godimento che porta cio’ che ho chiamato la gloria del marchio? Certo, questa è una delle vie attraverso cui l’Altro entra nel suo mondo, ed è sicuramente una via non confutabile. Ma l’affinità fra il marchio e il godimento del corpo in quanto tale sta proprio a indicare come è solamente attraverso il godimento, e non per altre vie, che si instaura quella divisione per cui il narcisismo si distingue dalla relazione con l’oggetto.” 2
Nel passaggio dall’occultamento alla rivelazione dei segni del corpo che evidenziano la pratica è implicato il passaggio dalla vergogna all’ostentazione caratteristico dell’epoca contemporanea. 3
Sappiamo che l’imperativo dominante la società contemporanea è: godi! Questo comporta non solo la destituzione del giudizio dell’altro, del senso di colpa, ma anche l’abolizione dello sguardo dell’Altro che ci coglie nel nostro godimento.
La vergogna si distingue dal senso di colpa proprio nella sua relazione con l’altro. Mentre nel senso di colpa il rapporto è con l’altro che mi giudica, cioè un altro che contiene dei valori che il soggetto con il suo comportamento trasgredisce; nella vergogna il rapporto non è con un altro che giudica ma con un altro che vede. Che vede e che nello stesso momento dà a vedere. Mi riferisco qui al famoso apologo sartriano contenuto nell’Essere e il nulla 4 per cui la vergogna scaturirebbe non dal guardare dal buco della serratura, ma dall’essere sorpreso, dall’essere visto guardare. Vale a dire che la vergogna è in stretta relazione con il godimento e con la degradazione, descritta da Sartre, che colpisce il soggetto nell’essere colto nel suo godimento.
Ma attualmente siamo in un epoca in cui lo sguardo dell’Altro, che causa la vergogna, si è dissolto. Lo dimostra la tendenza odierna alla spettacolarizzazione della realtà. I reality show (tutta la televisione è un reality show) sono la dimostrazione che il nostro sguardo, lungi dal creare vergogna, non è che uno sguardo che gode allo stesso modo.
Il passaggio quindi dalla vergogna all’ostentazione del proprio godimento cambia il senso della vita, in quanto ne cambia il senso della morte. Non si muore più di vergogna, e la vita diventa ignobile, senza onore. Una degradazione che cambia radicalmente lo statuto etico del soggetto.
La scomparsa della vergogna sta a segnalare che il soggetto cessa di essere rappresentato da un significante che valga. Nell’algebra lacaniana è il passaggio, segnalato nel Discorso del Capitalista, dell’S barratto al di sopra della linea, vale a dire come un soggetto che non ha più un significante-padrone come riferimento. Il soggetto non ha più un significante che lo rappresenti per un altro significante.
Questo comporta la disperata necessità da parte del soggetto dell’assunzione di una nuova, precaria, forma di rappresentazione mutuata dalle componenti immaginarie legate al proprio godimento. Componenti a cui sono ascrivibili le pratiche autolesioniste qui prese in esame. Il passaggio dalla vergogna all’ostentazione evidenzia quindi chiaramente la dinamica insita nel Discorso del Capitalista.
L’autolesionismo, oltre a rafforzare l’immagine di sé, si presenta anche come disperato appello rivolto all’Altro. Più precisamente come acting out, cioè qualcosa che nella condotta del soggetto si mostra e lo orienta verso l’Altro.5 Come tale richiede interpretazione. “L’acting out è un sintomo. Anche il sintomo si mostra come altro. Prova ne è che deve essere interpretato.” 6
La messa in scena è l’aspetto più evidente, sia nelle modalità di esecuzione dell’atto autolesionista, sia nelle successive lamentazioni incentrate sulla disperazione esistenziale che domina il “soggetto che nessuno comprende”. Essere compreso è in effetti la meta a cui agogna. Essere preso, accettato nella comunità umana, accedere finalmente all’età adulta desiderante. Essere com-preso, incluso nel mondo adulto.
Ancora una volta Lacan ce ne indica le implicazioni: “Combinando questi due termini – quello del mostrare o dimostrare e quello del desiderio – per isolare un desiderio la cui essenza è di mostrarsi come altro e, tuttavia, proprio mostrandosi come altro, di designarsi. Nell’acting out diremo dunque che il desiderio, per affermarsi come verità, si inoltra in una via in cui probabilmente giunge solo in modo che definiremo singolare, se non sapessimo già, per il nostro lavoro qui, che la verità non appartiene alla natura del desiderio. 7
Tutto questo dal lato del soggetto. Dall’altro lato, quello dell’operatore, alla difficoltà di accettare di essere il destinatario di un appello, si somma la crudeltà e il pathos, ed a volte anche la repulsione verso gesti così violenti ed estremi, che ci spingono a rifiutare ed allontanare i soggetti che agiscono l’autolesionismo. Pur ammettendo che non è certo facile rimanere lucidi e razionali davanti al sangue che zampilla, dobbiamo ricordarci che tutta la messa in scena è lì per noi, perché noi la si possa cogliere ed interpretare. Dobbiamo cioè rammentare che “l’acting out è l’abbozzo del transfert. È il transfert selvaggio. Non c’è bisogno di analisi – potete ben immaginarlo – perché vi sia transfert. Ma il transfert senza analisi è l’acting out. L’acting out senza analisi è il transfert.” 8
Cio’ non toglie che in alcuni casi non si tratti di acting out, ma di passaggio all’atto. Sta al terapeuta individuarne la differenza. Un atto estremo come puo’ essere il tagliarsi avviene sempre in una concatenazione di eventi che ne determinano la dimensione. Se nell’acting out il soggetto si rivolge all’altro, e il gesto assume quindi la dimensione di un messaggio, seppur singolare, nel passaggio all’atto il soggetto esclude l’altro. Non mira ad essere compreso ma a fuggire, ad uscire di scena. Uscire cioé da una struttura significante, la scena dell’Altro appunto, “in cui l’uomo come soggetto deve costituirsi, deve prendere posto come colui che porta la parola, ma potrà portarla solo in una struttura che, per quanto si ponga come veridica, è una struttura di finzione.” 9
Un’uscita di scena che implica l’avventurarsi nel mondo, luogo in cui si accalca il Reale, come lo definisce Lacan. Avventurarsi cioè in una dimensione in cui il soggetto non puo’ rappresentarsi. Ed è qui che le pratiche di manipolazione, corruzione, sperimentazione, anche violenta, del proprio corpo e la conseguente ostentazione del godimento connesso, assumono una valenza completamente differente.
A questo proposito non è superfluo ricordare come le pratiche autolesioniste hanno spesso i loro esordi durante l’adolescenza. Vale a dire in un momento in cui al soggetto è richiesto un passaggio fondamentale e fondante. Uscire dall’infanzia significa di fatto imparare come le cose sono venute all’essere, e cosa fonda i comportamenti umani, le istituzioni sociali e culturali. L’adolescenza, come ben evidenziato da Marco Focchi in un suo articolo 10, è il tempo di una scansione, è la soglia tra una situazione stabilizzata e l’apertura del possibile. Un passaggio che era ritualmente codificato nelle società arcaiche e che permetteva l’assunzione della cultura della tribù e l’accesso ad una vita sensata, ma che nel mondo desacralizzato contemporaneo lascia il soggetto solo davanti alla povertà, la degradazione e l’inganno che stanno dietro le apparenze del mondo visibile. L’accesso al mondo adulto non avviene più con il supporto della chiave simbolica edipica, e il soggetto deve trovare altre vie per sostenersi. Vie strette e insidiose che si snodano tra le spire di due fenomenali ammaliatori: il corpo e l’oggetto.
Per quanto riguarda la pratica del cutting è il corpo a dispiegare tutte le sue potenzialità.
Come ci indica Lacan dobbiamo ricordarci che il rapporto dell’uomo con il proprio corpo “si basa interamente sul fatto che l’uomo dice di avere il corpo, il suo corpo. Già dire suo vuol dire che lo possiede, come un mobile beninteso. Tutto questo non ha nulla a che vedere con qualunque cosa permetta di definire in modo preciso il soggetto, il quale si definisce in modo corretto solo in quanto è rappresentato da un significante presso un altro significante.” 11
Vale a dire che persa la possibilità di accesso alla comunità dei parlesseri, al soggetto non resta che il proprio organismo vivente da scuotere, agitare e modificare. Persa la possibilità di una iscrizione simbolica, non resta che il reale.
Questo perché solo l’uomo ha un corpo. E lo ha nella misura in cui vi è implicata necessariamente la trilogia costituita da organismo vivente, parola ed essere. Vale a dire che il corpo non è riducibile ad un mero organismo vivente, in effetti anche un cadavere, pur non essendo vivente, è un corpo. In definitiva, il rapporto dell’essere umano, del parlessere, con il proprio corpo è qualcosa di assolutamente innaturale: è culturale. Tutta la storia dell’arte consiste nel dimostrare questa evidenza. Ed è proprio la storia dell’arte recente che ci puo’ fornire ulteriori elementi di approfondimento rispetto agli agiti di autolesionismo presi in esame.
La storia dell’arte, in particolare la storia delle avanguardie, ci fornisce tutta una serie di esperienze che hanno avuto come spinta l’aggressione sistematica e violenta all’immagine del corpo. Mi riferisco alla sistematica distruzione della bellezza agita nei reiterati attacchi ai canoni di bellezza, forma, equilibrio etc. che si sono sedimentati attraverso i secoli nell’immagine del corpo umano. Pensiamo, ad esempio, all’evoluzione espressa nella sequenza che va dalle Bagnanti di Pierre Auguste Renoir del 1887, passando da Le grandi bagnanti di Paul Cézane del 1898 per arrivare a Les Demoiselles d’Avignon di Picasso nel 1907. È evidente che nel giro di vent’anni i riferimenti estetici sono radicalmente cambiati. Ma il percorso non si arresta a questi risultati. La bellezza del corpo, fondata sull’equilibrio delle forme che per secoli ci ha accompagnati, viene improvvisamente meno se pensiamo alla sequenza: Nudi nella foresta di Fernard Léger del 1910, Danze alla fontana di Francio Picabia del 1913 e Ritratto di Tristan Tzara di Hans Arp del 1916. Ma è nel secondo dopo guerra che l’aggressione si fa ancora più violenta e diretta, cioè agita nel reale. Il corpo non è più rappresentato ma agito. Pensiamo ad Aktion di Gunter Brus del 1965, a Material Aktion n. 30 di Otto Muehl del 1966, ad Azione sentimentale di Gina Pane del 1973 o a Body sospension di Sterlac del 1985.
Queste ultime, in particolare, sono opere che cercano e propongono il fastidio, l’inguardabile, l’osceno, il rivoltante, l’orribile come valore estetico in una sorta di ribaltamento dei valori. L’arte sembra uscirne massacrata. Negata nella sua tendenza ad elevare le tensioni più brutali dell’uomo. Anzi queste ultime vengono esasperate e portate in primo piano esaltandone l’aspetto mortifero. Morte corporale, morte visibile, spettacolare. Una violenza autolesionista che tende alla spettacolarizzazione e che trova nell’assoluta esibizione del proprio godimento, come insegna identificatoria, la sua unica ragione d’essere. Uno sfondamento che dall’immaginario passa alla sua attuazione diretta nel reale senza alcune mediazione del simbolico.
Per quanto riguarda la Body-Art, ambito a cui rivolgiamo la nostra attenzione nel tentativo di illuminare e comprendere le implicazioni insite nella pratica del cutting, si possono distinguere due forme di distruzione della bellezza, presenti a volte contemporaneamente, in queste espressioni artistiche. La prima forma mira alla distruzione dell’Altro o a diventare l’oggetto di godimento dell’Altro. È questo un movimento che investe massicciamente il corpo, e che possiamo riconoscere nell’espressione performativa in cui primeggia l’agito, il passaggio all’atto. La seconda forma di distruzione mira invece alla ricerca dell’oggetto e passa per la distruzione dell’immagine speculare come ostacolo. Nella Body Art, più precisamente nella sua produzione teorica, abbiamo la distruzione della bellezza contestualizzata in un ricerca di sapere, cioè come distruzione di un concetto. È in questa direzione che molte delle avanguardie si sono prodigate distruggendo sistematicamente i canoni estetici precedenti. Percorso che non ha portato che all’affermazione più radicale e insondabile dell’oggetto opera d’arte. Al punto che l’oggetto rifulge proprio nell’impossibilità di essere ricondotto al linguaggio o ad un sistema precostituito. Qui l’oggetto d’arte è “bello” proprio nel suo negare i canoni estetici precedenti affermandone di nuovi. La distruzione del canone della bellezza è quindi, in questo movimento, funzionale alla possibilità di affermare una nuova relazione significante con il reale dell’oggetto. Questa tendenza cerca inesorabilmente di evidenziare l’assoluta irriducibilità della Cosa alla sua rappresentazione.
Ma quando la distruzione della bellezza si presenta come distruzione del corpo, cio’ che si vuole colpire è proprio questa radicale dicotomia. Cio’ che si vuole distruggere è lo specchio. Distruggere l’Altro significa essenzialmente distruggere la possibilità di un riferimento, di una garanzia ultima. Si vuole cioè negare, chiudere, eliminare l’irriducibilità della Cosa alla sua rappresentazione. In pratica, distruggere l’Altro vuol dire preservare la Cosa. Vuol dire affermare la realtà autonoma della Cosa. Distruzione dello specchio e frantumazione del corpo. 12
Ritornando ora alla pratica del cutting, come già espresso, sta alla preparazione del terapeuta saper distinguere quando tale pratica è un acting-out e quando invece è un passaggio all’atto. Quando cioè vi è implicato l’altro e conseguentemente si puo’ ricondurre ad un ambito nevrotico, o quando l’altro è radicalmente escluso, negato, distrutto e la psicosi si delinea come quadro di riferimento.
A mio parere è pero’ evidente che tale pratica, pur presentandosi spesso come corollario in comorbillità con altri disturbi (tossicomania, anoressia-bulimia, etc.), si sta sempre più diffondendo anche autonomamente ed è comprensibile nel quadro teorico delle “nuove forme del sintomo” che rispondono al Discorso del Capitalista. Vale a dire dei sintomi in cui risulta determinante l’abbinamento di un atto (il cutting) con un altro (quello di potersi nominare). Nel cutting, inoltre, abbiamo la rappresentazione concreta di un famoso aforisma di Lacan per cui cio’ che non si è iscritto nel simbolico ritorna nel reale. Un aforisma che, oltre a sottolineare la debilità della funzione paterna dell’età contemporanea e il conseguente scacco dell’Edipo, ne indica forse anche i motivi per cui tale pratica gode di una più vasta diffusione nell’universo femminile per il quale la ferita sanguinante, se non iscritta in un ordine simbolico, è destinata a moltiplicarsi nel reale del corpo.

Note:
1) “Mia preferita fonte interna, bacero’ le tue piaghe aperte, apprezzo la tua preoccupazione, tu sempre puzzerai e brucerai” Rape me, Nirvana, contenuta nell’album In Utero, David Geffen Company, 1993.
2) Jacques Lacan – Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi – Einaudi, Torino, 2001 – pagg. 55/56
3) Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento segnalo il numero 46 del 2009 della rivista La Psicoanalisi che ha per titolo La Vergogna. In particolare i testi: Nota sulla vergogna di Jacques-Alain Miller e La vergogna e l’odio di sé di Eric Laurent.
4) Jean Paul Sartre – L’essere e il nulla – Mondadori, Milano, 1958
5) Jacques Lacan – Il seminario. Libro X. L’angoscia 1962 /1963 – Einaudi, Torino, 2004 – pag 133
6) Ibidem. pag 135
7) Ibidem. pag 134
8) Ibidem. pag 136
9) Ibidem. pag 126
10) Marco Focchi – L’adolescenza come apertura del possibile in La Psicoanalisi n°46 luglio-divcembre 2009, Ed. Astrolabio, Roma, 2010
11) Jacques Lacan – Il Seminario XXII Il Sinthomo – Astrolabio Ubaldini Editore, Roma, 2006 – pag. 150
12) Mi permetto qui di rimandare alle mie ricerche sull’argomento: P. Peterlini – Lo squartamento estetico. La distruzione della bellezza Body Art – in “Il disagio della bellezza” a Cura di A. Mierolo e M.T. Rodriguez – Franco Angeli editore, Milano 2006; P. Peterlini – L’oggetto a-rtistico e i quattro discorsi – in Attualita’ Lacaniana n° 7-2008 – Franco Angeli editore, Milano 2008; P. Peterlini – Indici dell’oggetto a: opere d’arte, ex voto, reliquiari – in Appunti anno XV n° 116 – aprile 2008. Pubblicazione edita dalla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo Freudiano