Discorsi d’arte contemporanea

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INTRODUZIONE

Il mondo dell’arte ha sicuramente subito il grande fascino esercitato dal sapere psicoanalitico. Molti artisti hanno fatto riferimento, direttamente o indirettamente, all’insieme di teorie che Freud ha elaborato tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Pensiamo alla scrittura automatica prodotta dai surrealisti. Che cos’è se non la pura e semplice applicazione del principio delle associazioni libere? Ed il collage, così caro ai Dadaisti, che cos’è se non l’applicazione del principio di condensazione che governa il sogno, alla creazione grafica? I mondi surrealisti, ma anche quelli metafisici di De Chirico, sarebbero stati possibili senza la psicoanalisi? O forse il contrario, la diffusione della psicoanalisi sarebbe stata possibile se non fosse nata questa nuova sensibilità artistica? Questo nuovo sentire poetico? Perché, come lo stesso Freud ha sempre ammesso, il poeta precede lo psicologo, e a ben vedere, le rappresentazioni fantastiche, assurde, immaginarie, di sogni, visioni, e quant’altro sono sempre state presenti nella storia dell’arte.
Certo la psicoanalisi ha fornito nuovi e potenti mezzi per l’analisi delle opere d’arte. Critici ed esegeti di vario rango si sono gettati a capofitto a costruire, con le nuove chiavi esplicative messe a punto da Freud in ambito clinico, un nuovo metodo di valutazione estetica. In pratica, travisando, in buona o cattiva fede, le indicazioni del dottore viennese, è nata e si è sviluppata, suscitando un certo interesse, la critica psicoanalitica dell’arte. Un filone di studi che ha portato in primo piano, per la gioia dei collezionisti d’arte e dei letterati, tutta una serie di aneddoti della vita degli artisti che sono stati riconosciuti come i conflitti alla base della loro creazione. Una letteratura morbosa, che cerca nella patologia personale dell’artista la spiegazione delle opere prodotte dall’artista stesso. Una letteratura che nasconde la propria ignoranza sulla questione di fondo della creazione estetica, dietro una sfavillante serie di avvenimenti familiari che starebbero alla base, che fornirebbero il materiale, che sarebbero la causa della creazione stessa.
Ora, che alla base della creazione ci siano dei “conflitti interni” riconducibili a delle patologie non ha niente di straordinario. E’ dalle sue prime apparizioni che alla figura dell’artista è riservata quella forma ambigua di rispetto e timore che contraddistingue anche il normale comportamento verso i pazzi. In buona sostanza, ai matti si da sempre ragione, così come agli artisti. Che parlino in nome proprio o per conto di un dio.
Ciò non toglie che il metodo “psicoanalitico” sia stato applicato massicciamente per gran parte del Novecento, spesso a vanvera e con risultati poco interessanti. Anzi. Spesso riduttivi e miseri, ma che sono oramai entrati nel patrimonio comune in una forma banalizzata. Siamo tutti esperti nel vedere il trauma o la perversione che si nasconde dietro la rappresentazione di tale o talaltro artista e che trova conferma in un particolare aneddoto della loro vita, vero o falso che sia. Questa versione della critica psicoanalitica dell’arte, che trova nella ricerca delle fonti inconsce dell’opera la sua forza, e nello svelare i “conflitti interiori” dell’artista il suo fine, non apporta però nulla di interessante né alla comprensione del concetto di sublimazione, vero cardine teorico di tutto l’impianto freudiano, né del concetto di bellezza, fondamento della teoria estetica. In buona sostanza, è bene ripeterlo, si riduce ad uno sterile esercizio di patografia applicata all’arte. Apporto veramente misero da parte di un pensiero, quello psicoanalitico, che ha così fortemente permeato di sé tutto il Novecento. Seguendo le indicazioni forniteci a più riprese nel corso del suo insegnamento da Jacques Lacan, tenteremo di non cadere in questa deriva patografica della critica psicoanalitica dell’arte. Quello che si tenterà di fare è di applicare l’arte alla psicoanalisi e non la psicoanalisi all’arte. Solo agendo in questo rovesciamento si riuscirà, forse, ad apportare qualcosa di interessante sia per il concetto di sublimazione e sia per il concetto di bello.

Il Novecento ci abituati a confrontarci con opere d’arte sempre più difficilmente ascrivibili alle categorie estetiche tradizionali. Il dibattito arte non-arte si è spesso acutizzato di fronte ad alcune opere che hanno fortemente scosso i principi di bello, equilibrio, forma, armonia, etc. così rassicuranti nell’opera di riconoscimento di un opera d’arte classica. Come ha ben sintetizzato Nathalie Heinich in un suo recente testo: “Oltre a questioni estetiche di valutazione (più o meno “bello” o “ben fatto”) e di gusto (“piace” di più o di meno), il dibattito attuale implica anche questioni ontologiche o cognitive di classificazione (è o non è arte) e di integrazione/esclusione (si accetta o no una certa proposta come opera d’arte)”.(1) Rimanere oggettivi è sempre più difficile e, di fronte alle opere d’arte contemporanee, si tende a scivolare da un giudizio da osservatore a un giudizio da valutatore (Gilbert Dispaux) liberandosi così della spinosa questione riguardante i motivi che hanno reso possibile una tale opera, sia da parte del creatore, sia dalla parte del fruitore che la accetta e la ingloba nel sistema dell’arte. Decidere che un determinato oggetto non è arte è sicuramente il metodo più sbrigativo per evitare di doverne rendere ragione. Questo è soprattutto vero per quanto riguarda l’arte contemporanea così fortemente caratterizzata da una logica trasgressiva. Una logica che si concretizza nella sistematica confusione e commistione di generi, mezzi e sensi. Non sono solo le regole tradizionali dell’arte ad essere tradite/tarsgredite ma soprattutto i quadri di riferimento interpretativo: estetico, morale, giuridico. In pratica “l’arte contemporanea si basa sulla sperimentazione di ogni forma di rottura con ciò che precede, considerando positiva la trasgressione associata a un sovvertimento critico.”(2)

In questo quadro trasgressivo, osserviamo che molte espressioni artistiche contemporanee sono sempre più fortemente dominate da ammiccamenti, per non dire da profonde connessioni, con aspetti sfacciatamente psichiatrici. Queste opere, oltre a rendere esplicito il rifiuto e ad acutizzare il “giudizio valutatore”, invitano spesso, attingendo agli strumenti della psicoanalisi, ad una piatta interpretazione patologica. Ma, come abbiamo già ricordato, è sicuramente la strada più semplice. E’ un modo per evitare una domanda profondamente scomoda e fastidiosa, inevitabile se si affronta seriamente ciò che viene rappresentato nell’arte contemporanea. Perché la patologia psichiatrica è entrata così prepotentemente nell’arte? Questa deriva ha profondamente segnato il XX secolo tanto da mettere in dubbio la sua natura. In buona sostanza: Si può parlare ancora di opera d’arte? A cosa serve? Che cosa la rende tale? Perché la società vi attribuisce un valore? Tutto questo può insegnare qualcosa alla psicoanalisi? E’ possibile uno scambio di sapere tra estetica e psicoanalisi?

Attraverso l’arte si possono capire molte cose delle dinamiche sociali in atto. Questo però non basta per definire un manufatto “opera d’arte”. Molte delle cose prodotte dall’uomo, se non tutte, rispecchiano e parlano della società nella quale sono state create. Ne più ne meno che un’opera d’arte. Abbiamo visto che la cosa si complica ancor di più nel XX secolo, in cui avviene uno scollamento pesante tra ciò che è opera d’arte e ciò che è il gusto comune. La produzione estetica diventa sempre più astratta, estranea, incomprensibile, difficilmente riconducibile ad un’idea di “rispecchiamento” della società nell’opera d’arte. E’ in questo percorso di allontanamento che improvvisamente ricompare il corpo umano. Riprendendo un famoso saggio di Ortega y Gasset, potremmo dire che più avanzava il processo di disumanizzazione dell’arte, più ritornava in primo piano il corpo.
Il secolo scorso è stato, nella sua brevità, costellato da esperienze d’avanguardia in cui gli artisti si sono confrontati a diversi livelli e a più riprese con la presenza del corpo. Abbandonato da anni come riferimento principe della pittura, il corpo è ritornato prepotentemente in auge nel XX secolo, ma non quale entità da riprodurre nella sua perfezione, ma come oggetto espressivo, come luogo di sperimentazione, sul quale si sono accanite le più radicali forme di ricerca. Il corpo è così ritornato ed è stato fotografato, agito, ferito, modificato, squartato, oltraggiato, beatificato. Un ritorno sintomatico nel reale di una entità, il corpo appunto, che era oramai divenuto astratto, ideale. Da prima le avanguardie storiche con il loro uso teatrale del corpo, poi Duchamp e l’utilizzo di alcuni atteggiamenti e pose come opere d’arte, ed ancora Fluxus e l’Azionismo in cui il corpo negli happenings e nelle azioni era l’elemento fondamentale. In fine, la Body Art che portando alle estreme conseguenze l’utilizzo del corpo arriva fino alla sua radicale modifica e/o azzeramento attraverso la ferita sanguinolenta.
Questo uso massiccio del corpo pone un evidente problema sia all’estetica tradizionale, sia all’elaborazione di una estetica lacaniana. Nel primo caso, le forme estreme della Body Art sono state più volte liquidate come pornografiche, patologiche, sostanzialmente brutte, decretandone la sommaria emarginazione e la scarsa comprensione. Questo è vero almeno in prima battuta, salvo poi essere riassunte nelle sue forme edulcorate proposte dalla seconda e terza generazione di artisti che hanno eletto il corpo a loro principale strumento espressivo.
Per l’elaborazione da noi proposta, invece, il problema si presenta più radicale. Nella pratica della Body Art avviene una esposizione tout-court di un godimento che, riferendosi alle elaborazioni proposteci sia da Freud che da Lacan, dovrebbe rimanere assolutamente celato. E’ questo un cambiamento radicale che impone l’elaborazione una nuova prospettiva nel modo di pensare l’opera d’arte e la sublimazione. Questa vera e propria ostentazione di godimento inscenata nelle performance va quindi a scuotere profondamente l’idea stessa di opera d’arte, intesa come sublimazione Partendo quindi da presupposti psicoanalitici non possiamo riconoscere in questo ambito di ricerca artistica alcun movimento di sublimazione fondante l’opera d’arte. Ma, visto il riconoscimento attribuitovi, seppur tardivamente, dalla società, non possiamo nemmeno negare che qualcosa che ha a che vedere con l’arte (e quindi con la sublimazione) sia in atto. Che la società vi trovi qualcosa di interessante, pacificante, appagante, è per noi motivo di interrogazione.
E’ esattamente questo punto di arresto che ha guidato la ricerca che sta alla base di questo lavoro. Ricerca approdata alla teoria del quattro discorsi proposta da Lacan a partire dagli anni Settanta, nel tentativo di uscire da questa impasse.

Il lavoro è diviso essenzialmente in quattro parti. La prima è dedicata all’approfondimento/confronto delle teorie estetiche deducibili dagli insegnamenti di Freud e di Lacan. La seconda è dedicata allo sviluppo articolato dell’estetica lacaniana attraverso la rilettura dell’evoluzione della poesia sperimentale nel ventesimo secolo. Nella terza parte, sono elaborati alcuni punti d’arresto dell’estetica lacaniana rappresentati da certi movimenti artistici, riconosciuti e autorizzati come tali dal sistema delle arti, che non rispondono alla tesi di bordatura del vuoto espressa da Lacan nel VII seminario e/o di sublimazione come l’indica la teoria classica freudiana. La quarta e ultima parte è dedicata allo studio dei Quattro Discorsi, come sono presentati da Lacan nel XVII Seminario, e alla loro possibile articolazione con i punti d’arresto riscontrati nella parte precedente.

Il presente testo è costituito essenzialmente dalla rielaborazione del lavoro di tesi di Diplôme d’études approfondies discusso nel giugno del 2004 presso l’Università di Parigi VIII e di alcuni altri brevi lavori già editati: L’ostentazione del reale nell’arte contemporanea ( in Annali della Sezione Clinica di Milano – L’Etica della psicoanalisi – Ed. La Vita Felice 2004), Julien Blaine: la poesia intesa come gioco dei significanti (Art in Italy n° 20 – 2002) e Lo squartamento estetico (in Bottiroli-Rodriguez – Il disagio della bellezza – Franco Angeli 2006).