“Sono sempre stato costretto a creare scandali per spiegare me stesso.”

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Sarenco. Il guerrigliero

Catalogo Galleria Clivio, 2017

Sarenco è un personaggio cardine nello sviluppo internazionale della Poesia Visiva. 

Parlo volutamente di personaggio perché il mito che lo circonda è stato ostinatamente e metodicamente costruito dallo stesso poeta a partire dalla scelta di operare con un nome d’arte. Sarenco è un nome inventato come lo è tutta la sua vita, sempre condotta tra mille avventure, iniziative e battaglie. Se è pur vero che il mito di Sarenco si è alimentato di innumerevoli aneddoti che lo tratteggiano come un truffaldino avventuriero, è assolutamente certo che l’attività di Sarenco, fin dai suoi esordi agli inizi degli anni Sessanta, ha trovato come solo ed unico scopo quello di operare per la diffusione della Poesia Visiva internazionale lasciando ben poco spazio all’arricchimento materiale personale. 

Se con la nascita delle avanguardie storiche la poesia ha iniziato un percorso che l’ha portata a perdere definitivamente il suo atteggiamento consolatorio e rassegnato divenendo uno strumento di lotta rivoluzionario, la Poesia Visiva è l’arma più raffinata perché non rispetta più né i codici né le regole. 

Sarenco, che ne è stato uno dei massimi rappresentanti internazionali, incarnava a pieno questo spirito e la sua poesia “è volgare, aggressiva, ironica, dolce, tenera, furba come una volpe. È soprattutto ladra: si impossessa di tutto senza chiedere permesso alla SIAE o alla storia dell’arte, è anarchica e rifiuta la burocrazia e gli agenti delle tasse.” (1)

Sarenco è stato quindi un poeta in lotta, un guerrigliero, e tale suo essere permeava ogni sua espressione. Sarenco è stato dunque fastidioso, imprevedibile, infingardo, e dato che il suo terreno di lotta era il mondo dell’arte le sue azioni non potevano che essere volte ad ostacolarne l’attività,tenendole costantemente in allarme, costringendole ad abbandonare lo sfruttamento economico dell’arte stessa minandone in continuazione la credibilità e l’autenticità. In questo senso il suo essere stato riconosciuto ed additato come un “truffaldino avventuriero” ne accresce il suo mito e la sua importanza.

La sua poetica radicalmente guerrigliera non ha mai ceduto il passo a compromessi o ammiccamenti. In questa chiave va letta gran parte della sua attività, sia poetica che organizzativa. Se la sua attività poetica, infatti, si contraddistingue per una caustica ed intransigente visione politica, battagliera, dell’utilizzo delle immagini e delle parole, altrettanto si può dire per tutta la sua vulcanica attività di organizzatore di mostre, festival e pubblicazioni. Le due cose sono assolutamente inscindibili e costituiscono la più coerente fusione di vita ed arte che un artista italiano sia riuscito a costruire e vivere nella seconda parte del XX secolo. Una coerenza tenace che lo ha portato ad essere spesso inviso a tutto il mondo dell’arte: dalla critica, che spesso ha evitato di occuparsene per paura di compromettersi; dal mercato, che cercava di costruirsi una maschera di purezza virginale addossando le più incredibili contraffazioni al poeta bresciano; e dagli stessi artisti e poeti che si soffermano tutt’ora sugli aneddoti (seppur numerosi) senza cogliere il disegno d’insieme che muove ogni sua azione. 

Tra le sue opere giovanili le più famose sono quelle della serie “Licenza poetica” che caratterizzano il periodo che va dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Settanta. In una di esse una giovane ragazza sta per scagliare un sasso durante una manifestazione, in un’altra un gruppo di ragazzi armati di bastoni circondano un poliziotto in tenuta antisommossa caduto a terra. La lotta e la guerriglia urbana caratterizzano da subito in modo forte la produzione di Sarenco. L’immagine è nitida e il testo che costituisce il titolo è una chiara e netta dichiarazione d’intenti. La poesia per Sarenco è lotta e non può che essere violenta e dissacrante. Nell’intervista contenuta nel catalogo pubblicato in occasione della sua partecipazione alla Biennale di Siviglia del 2004, Sarenco dichiara: “Opporre Opposizione, scritto in nero, con alcune lettere rosse per formare la parola poesia. La poesia, per me, esiste solo come lotta, come opposizione a qualcosa. Opposizione ideologica, opposizione politica, opposizione linguistica. Credo che la mia poetica possa essere riassunta in questo titolo. Opporre Opposizione, ai Rossi e ai Neri, l’eterno conflitto.”(2)

La licenza riservata ai poeti da eccezione letteraria, concessa per necessità musicali e ritmiche, diviene con Sarenco, inevitabilmente, una forma di lotta, di opposizione, di rivolta, necessaria non acreare armonia ma a creare disaccordo e tensione. La reazione del pubblico è voluta e ostinatamente  ricercata attraverso una costante provocazione mai scontata e banale. La licenza poetica diviene quindi un’arma potente che se usata in maniera adeguata genera pensiero.

Opposizioni linguistiche: giochi di parole, non-sense, calambour, paranomasie, paragrammie, anagrammi, corto circuiti di senso, stanno alla base della sua produzione artistica. Per linguistiche non s’intende qui solo parole ma anche, e soprattutto (visto il grande potere di fascinazione che esercitano) immagini. 

L’opposizione è quindi la figura retorica centrale della poetica di Sarenco. Una poetica che, lo ripeto, è imprescindibile dalla vita perché si esprime anche e soprattutto attraverso di essa. Del resto lo ricorda lo stesso poeta in una sua serie di lavori: “Io non dipingo. Io vivo”

L’opposizione non è però in Sarenco sterile forma, pantomima di maniera o furba ed ammiccante seduzione o, peggio, narcisistico autocompiacimento. Basta rileggere le opere giovanili anticlericali, da “Kein gott” alla serie “La religione è l’oppio dei popoli” o quella “Il popolo è forte armato vincerà” per rendersi conto che non è un “atteggiamento” di circostanza, una semplice assunzione di una posizione dettata dal periodo storico. In “Kein gott” la sostituzione di una consonante trasforma l’invocazione “Mein gott” (Mio dio) nella negazione totale “Kein gott” (Nessun dio). Il paragramma, semplice e banale, diviene nelle mani di Sarenco qualcosa di conturbante. La scritta è riprodotta a scansioni regolari su un lunghissimo tubolare di plastica gonfiabile. Ecco che il semplice gioco di parole, trasformato in una installazione plastica, diviene qualcosa di fortemente provocatorio che, proprio grazie alla specificità della Poesia Visiva, non può che essere letto che in tutt’uno. Vale a dire un lunghissimo pallone gonfiato chiamato Kein Gott.Una volta gonfiato il tubo rivela l’inconsistenza dell’idea stessa di dio, svelandone la sua illusorietà e precarietà. Riduce l’idea di dio ad un gioco per bambini (il palloncino) che maschera una componente fallico-totemica già messa in evidenza dalla psicoanalisi.

L’idea del terrorismo ideologico, costantemente sviluppata dal poeta bresciano, non poteva che sfociare nella creazione di un organo di diffusione militante, politico e provocatorio: la rivista “Lotta Poetica”. Fondata con l’amico poeta Paul De Vree e con il pittore Gianni Bertini (ma arriveranno ben presto allo scontro e alla separazione proprio per la divergente visione dell’impegno politico dell’arte), “Lotta Poetica” è la rivista d’avanguardia più longeva (Sarenco ne stava curando dal 2012 la quinta serie chiamata “The New Lotta Poetica”) e sicuramente la rivista che, grazie alla sua redazione internazionale, ha permesso il collegamento della Poesia Visiva ai numerosi altri movimenti mondiali di avanguardia giocando un ruolo determinante per la sua diffusione nel mondo.(4)

L’attività di “rivistaiolo” è sicuramente centrale nella produzione artistica di Sarenco e rientra anch’essa nel quadro generale della sua attività avanguardista partigiana. Le riviste, come le opere poetiche e come i suoi film e video, rispondo esclusivamente all’urgenza di veicolare un messaggio che non troverebbe mai posto nei canali mediatici istituzionalizzati dell’arte. La scelta di fondare riviste è, in buona sostanza, una scelta obbligata. Se Sarenco, come molti altri poeti dell’epoca, non si fossero auto-pubblicati di loro non esisterebbe traccia. Come ha più volte dichiarato Lotta poetica nasce da una evidente necessità: poiché le importanti riviste patinate pubblicate dai grandi editori si rifiutano anche di prendere in considerazione il nuovo fenomeno, fermandosi al lavoro tardo ermetico dei Novissimi e del Gruppo 63, gli autori più battaglieri e indipendenti, per necessità, decidono di fondare le loro riviste, le loro case editrici, le loro gallerie d’arte, senza chiedere il permesso a nessuno.”(5)

Una serie di riviste, quelle di Sarenco che ho già definito (6), facendo riferimento a Luigi Pintor, leniniste. Cioè riviste politiche di gruppo, tutte finalizzate all’affermazione o alla formazione di un partito (di un movimento: quello della Poesia Visiva). 

La rivista Lotta Poetica non è altro quindi che un bollettino (di guerra) con cui si veicolano le informazioni dell’andamento delle operazioni belliche. Non è un caso che in uno dei primi numeri dopo la separazione da Bertini, Sarenco e Paul De Vree, oramai liberi di agire in sintonia completa con le proprie aspirazioni rivoluzionarie, pubblichino un testo dal titolo “Notes sur la Poesia Visiva” che suona più come una dichiarazione di guerra che di Poetica:

“La poesia è violenza, cioè: la trasgressione della spietata logica della società d’opulenza e del suo razionalismo metodico ed autoritario. D’altra parte è anche la trasgressione della civiltà stessa: o la poesia, e l’arte in genere, trasforma profondamente i costumi oppure non è niente” (7)

L’espletamento di questo programma rivoluzionario non può che produrre solitudine e segregazione. La scelta espressa è di radicale contrasto, violento e senza esclusione di colpi. E’ un’azione programmatica rivolta all’eliminazione degli elementi negativi e dei mali sociali ed individuali. E’ una scelta deliberatamente utopica e votata al fallimento: “La storia la fanno i vincitori. La poesia la fanno i vinti” ha dichiarato Sarenco in una sua opera.

Da questo punto di vista, l’opera della maturità, quella che consolida definitivamente la sua figura e ne consacra il mito, è la costituzione verso la fine degli anni Ottanta della Domus Jani. Molti sono gli aneddoti e le chiacchiere su quello che è stato probabilmente l’ultimo esempio di costituzione di un’utopica cittadella dell’arte autogestita, anarchica e profondamente visionaria. La Domus Jani Centro Internazionale per l’Arte Totale è stato un delirio parossistico che mescolava genialità artistica, ostentazione dello spreco, esagerazioni goliardiche e lotta al mercato. Un vero e proprio potlach, vale a dire una affermazione pubblica del proprio status di artisti anarchici, antagonisti e guerriglieri. L’attività della Domus Jani è completamente da rivalutare. Proprio per la sua natura di potlach sono rimasti pochissimi documenti relativi alla sua programmazione. I numerosi flyers annuncianti mostre, aste, concerti, cene, performances etc. prodotti in quegli anni, in quanto oggetti effimeri, sono andati dispersi. Ne esistono alcuni, pochi, esemplari nelle collezioni di Poesia Visiva italiane. L’unica fonte, parziale, che permette una sommaria ricostruzione dell’attività che vi fu svolta è la rivista “Verona Voce. Il mensile intelligente di Verona” fondata e diretta da Sarenco e Miccini tra il 1989 e il 1991. Ma La Domus Jani meriterebbe una ricostruzione più accurata della sua incredibile attività, oltre che una lettura più attenta che ne metta in evidenza la sua natura di opera d’arte. Perché di questo in effetti si tratta.

La Domus Jani è un fuoco d’artificio un momento prima dell’esplosione. Dopo la lunga traiettoria verso l’alto segnalata dal fischio, ecco l’attimo di silenzio e sospensione in cui tutto sembra possibile e allo stesso tempo sull’orlo del fallimento che fa da preludio allo scoppio liberatorio dai mille colori e dalle mille traiettorie. La Domus Jani è la forma plastica di questo momento di sospensione. Tutto vi era possibile ed assolutamente precario e illusorio. Un esperimento allucinato che condensava in se tutte le energie per poi liberarle nelle mille traiettorie intraprese da Sarenco negli anni successivi: dall’Africa all’Asia, con continue incursioni nel cinema, senza mai abbandonare la Poesia e la Lotta.

Un impegno continuo, quello di Sarenco, che non è pensabile ridurre solo ad un mero aspetto del suo carattere. C’è qualcosa di più in tutto questo. C’è la necessità di rendere ogni sua azione, ogni sua iniziativa, parte integrante e coerente di un disegno poetico più ampio. Una poesia che trova nella possibilità di agire sulla realtà, adoperando qualsiasi mezzo, la sua più intima verità. 

Nel testo di Julien Blaine “Il Prof et l’apostrophé” (8) costruito come un piccolo apologo, il poeta marsigliese immagina un professore universitario che, nello svolgere la sua lezione moralista sul ruolo del maudit nella poesia e nell’arte, manda delle frecciate allo studente Sarenco cercando di convincerlo a desistere dalla sua ostinata posizione di opposizione perché, a conti fatti, non porta da nessuna parte. Non alla fama, non alla ricchezza. Ebbene, Blaine (che nel testo si associa a Sarenco: “Lei è come il suo amico francese, il suo compagno di scuola. Julien Blaine, mi pare”) in chiusura di testo mette in bocca all’amico italiano queste parole: “Sono un artista d’altro tipo: un artista nuovo che non è ancora sul mercato, un artista che sarete obbligati a studiare durante tutto il terzo millennio: il Maledetto Arrogante e Trionfante (M.A.T.). Avanti ! Professore, senza rancore, vai a farti fottere.”(9)

Questo piccolo testo sviluppa la stessa teoria che sto qui proponendo. Tutta la produzione autoriale, le mille iniziative editoriali ed organizzative, gli innumerevoli aneddoti (benevoli e maligni), in buona sostanza tutta la vita di Sarenco costituisce un’unica complessa ma coerente opera. Ostinatamente e caparbiamente costruita. Sarenco era (e sarà) il Maledetto Arrogante e Trionfante. Costituisce effettivamente una nuova versione del Maudit. Sarenco è la riscossa di tutti i poeti e gli artisti maledetti che hanno vissuto una vita grama e misera, piena di stenti e frustrazioni, sempre denigrati ed offesi dal sistema borghese e moralista dell’arte. Artisti fondamentali che vengono “riscoperti” solo dopo la loro morte.  In pratica, solo dopo che hanno smesso di rompere i coglioni. Ebbene Sarenco ha vissuto sempre in modo esagerato e spudorato, con una carica di vitalità che nonlo ha mai abbandonato anche nelle drammatiche sfide che hanno costellato gli ultimi dieci annidella sua avventurosa vita.

Patrizio Peterlini

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Note

1) Intervista rilasciata a Vincenzo Merola il 24 febbraio 2013 http://vincenzomerola.blogspot.it/2013/02/tre-domande-sarenco.html

2) “Interview with Sarenco”, in “Sarenco. Bella Ciao e altre vocazioni all’insofferenza”, Ed. Fabbrica Sarenco, 2004

3) Si veda: Rossana Apicella, “La Poesia internazionale dalla monoglossia alla praxiglossia”, in Lotta Poetica 20-23 gen.-mar. 1973 e Rossana Apicella, “Proposta per un decenntio” in Lotta Poetica 28-31 sett.- dic. 1973

4) Per approfondimenti si veda il mio “Sarenco: Le riviste, la lotta. Storia di un esploratore dell’avanguardia”, Ed. Nomadnomad, VR 2006

5) Intervista rilasciata a Vincenzo Merola il 24 febbraio 2013http://vincenzomerola.blogspot.it/2013/02/tre-domande-sarenco.html

6) P. Peterlini – “Sarenco: Le riviste, la lotta. Storia di un esploratore dell’avanguardia”, cit.

7) Paul De Vree, “Notes sur la Poesia Visiva”, in Lotta Poetica n. 13/14 giu./lug. 1973

8) “Sono un poeta di montagna e me ne vanto”, Ed. Fondazione Berardelli, BS 2008)

9) “Sono un Poeta di montagna e me ne vanto”, cit.