Riviste: centri nevralgici d’informazione e scambio per lo sviluppo dell’avanguardia internazionale

Intervento al convegno

Engaged Visuality. The Italian and Belgian Poesia Visiva Phenomenon in the 60s and 70s

Accademia Belgica / Università degli Studi La Sapienza, Roma

7-8 Luglio 2022

Intervento al convegno

Engaged Visuality. The Italian and Belgian Poesia Visiva Phenomenon in the 60s and 70s

Accademia Belgica / Università degli Studi La Sapienza, Roma

7-8 Luglio 2022

Abstract IT

Scrivere una storia, anche breve, delle riviste d’avanguardia, significa, di fatto, scrivere la storia stessa dell’avanguardia.
Le relazioni tra gli artisti, che si sono realizzate proprio grazie alla collaborazione alle varie riviste, hanno reso possibile quello scambio d’informazioni che da sempre è la linfa vitale dei movimenti d’avanguardia e che ne ha condizionato la vita stessa.
Queste fondamentali connessioni sono evidenti analizzando la composizione dei comitati redazionali delle riviste d’avanguardia e di controcultura.
Ad essi partecipano numerosi artisti, intellettuali, disegnatori e agitatori politici, in un continuo scambio ed intreccio di collaborazioni estremamente libere.
Una fluidità che permise una diffusione di informazioni e di iniziative che si espresse in quella esplosione di attività artistiche che ha contraddistinto gli anni Sessanta e Settanta.
Una analisi più attenta di questa rete potrebbe far emergere non solo la coesistenza, se non la coincidenza, dell’organizzazione redazionale di alcune riviste d’artista con alcune riviste politiche, ma anche i vincoli o le pressioni che l’una, la politica, ha esercitato sull’altra, l’arte.
In buona sostanza, metterli in evidenza come punti nevralgici, vale a dire punti delicati, difficili da maneggiare, in cui convergono interessi contrastanti, quello artistico e quello politico appunto e mettere in risalto le influenze, non sempre positive, esercitate dalla politica sull’arte.

Abstract EN

Writing a history, even a short one, of avant-garde magazines means, in fact, writing the history of the avant-garde itself. The relationships between the artists, which were created thanks to the collaboration with the various magazines, made possible that exchange of information that has always been the lifeblood of the avant-garde movements and that has conditioned their life itself.
These fundamental connections are evident by analyzing the composition of the editorial committees of avant-garde and counterculture magazines.
Numerous artists, intellectuals, designers and political agitators participate in them, in a continuous exchange and intertwining of extremely free collaborations.
A fluidity that allowed for the dissemination of information and initiatives that expressed itself in that explosion of artistic activities that characterized the sixties and seventies.
A more careful analysis of this network could reveal not only the coexistence, if not the coincidence, of the editorial organization of some artist magazines with some political magazines, but also the constraints or pressures that one, politics, he exercised on the other, art.
Basically, to highlight them as nerve centers, that is to say delicate points, difficult to handle, in which conflicting interests converge, the artistic and the political one and highlight the influences, not always positive, exerted by politics on art .

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Tra il 2002 e il 2004 mi sono dedicato ad una estesa ricerca d’archivio sulle riviste d’artista confluita in due volumi. Il primo pubblicato nel 2005 “Riviste d’arte d’avanguardia. Gli anni Sessanta e Settanta in Italia” (1) e il secondo l’anno successivo: “Sarenco: le riviste, la lotta. Storia di un esploratore dell’avanguardia” (2).
I volumi erano nati sull’onda della lettura del libro di Philippe Castellin: “Doc(k)s: mode d’émploi” (3), pubblicato nel 2002 ed interamente dedicato alla storia della fondamentale rivista di poesia fondata e diretta da Julien Blaine.
Dopo la lettura di questo libro mi resi conto che non era ancora stata fatta una mappatura delle riviste d’artista italiane del secondo dopo guerra. Decisi, con una certa dose d’incoscienza giovanile, di lanciarmi nell’avventura.
Esistevano, all’epoca, pochi libri sull’argomento. Ne citerò alcuni.

“Il Gesto Poetico” (4), numero monografico del 1968 della rivista “Uomini e Idee” curata da Luciano Caruso e Corrado Piancastelli dedicata alla nuova poesia d’avanguardia in cui i contributi pubblicati erano divisi per “gruppi in base al lavoro comune nelle riviste”.

Altri scritti di Caruso sull’argomento.

Il catalogo: “L’impassibile naufrago. (5) Le riviste sperimentali a Napoli negli anni ’60 e ’70”, a cura di Stelio Maria Martini, che affrontava la storia delle riviste d’avanguardia italiane limitatamente all’ambito napoletano.

“Gli anni delle riviste” di Elisabetta Mondello (6), dedicato però alle riviste letterarie;

i testi di Attilio Mangano sulle sulle riviste politiche degli anni Sessanta e Settanta. (7)

Più una serie di articoli, spesso scritti direttamente dagli artisti stessi, sparsi in numerose riviste di cui si può trovare il repertorio nel libro già citato “Riviste d’arte d’avanguardia”

Di conseguenza non mi era molto chiara l’estensione della materia né, per rimanere in metafora nautica, che avrei dovuto navigare in mare aperto senza stelle.
Intendo dire che non c’erano molti punti di riferimento.
Scoprii per caso il lavoro di Giorgio Maffei e Marco Bazzini.
Anche loro intenti a scandagliare gli archivi italiani. All’epoca avevano già prodotto la piccola mostra alla Biblioteca Poletti di Modena sulle edizioni Geiger dei fratelli Spatola e Téchne di Eugenio Miccini. (8)
Incontrarci ed unire i nostri sforzi fu assolutamente naturale.
Organizzammo così, nel 2003, la mostra “Con/centr/azione. C/arte vive. Provocazione, polemica e rivoluzione nelle riviste d’artista tra gli anni Sessanta e Settanta”, sempre alla Biblioteca Poletti di Modena, che ci permise di riunire in un solo luogo gran parte delle riviste d’artista che faticosamente avevamo individuato nei vari archivi in giro per l’Italia.
Al quel punto l’estensione di quella che Adriano Spatola definì “esoeditoria” ci apparve chiara.
Non solo. Ci rendemmo anche subito conto che la catalogazione delle riviste, e delle edizioni collegate, apriva uno squarcio straordinario su un periodo della storia dell’arte.
Era già noto che le riviste d’arte e d’artista hanno sempre svolto un ruolo centrale e che scrivere una storia, anche breve, delle riviste d’avanguardia, significava, di fatto, scrivere la storia stessa dell’avanguardia.
Ma ciò che stava emergendo in quelle nostre prime ricerche era qualcosa che andava oltre. Era sì storia dell’arte ma era anche storia della controcultura, storia della politica, storia sociale.
In breve: gli intrecci esistenti tra riviste d’arte, riviste politiche, fanzines rock, etc. restituivano il clima di un periodo storico che, grazie alla diffusione di piccole macchine offset, del ciclostile e poi della fotocopiatrice, ha di fatto sfruttato al massimo le possibilità di sviluppare una comunicazione e uno scambio d’informazioni fuori da ogni possibile controllo, fuori da ogni schema editoriale. Come scrisse Miccini: “le tecniche umili di stampa hanno avuto il loro momento epico, generando quasi il sospetto per la carta stampata-bene” (9)
In buona, sostanza nasceva una comunicazione profondamente libera.

Almeno così credevamo, ma ne siamo sicuri?

Le recenti desecretazioni degli archivi dei servizi segreti degli Stati Uniti e dei maggiori stati Europei ci raccontano il contrario.

Credevamo e speravamo che almeno la rete di comunicazione tra artisti fosse scevra da infiltrazioni, condizionamenti, etc. dovuti alla situazione politica internazionale e nazionale.
Ma basta leggere il libro di Frances Stonor Saunders: “La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti” (10), o ricordarsi della famosa operazione Raushenberg alla Biennale del 1964, per rendersi immediatamente conto che non è assolutamente reale sperarlo.
In breve: Il “Congress for Cultural Freedom”, istituito dalla CIA, è esistito ed ha operato dal 1950 al 1967 per poi cambiare nome in “International Association for Cultural Freedom” (IACF).

Attivo fino alla fine degli anni Settanta in 35 paesi, tra di essi tutti i paesi dell’Europa occidentale, ha stipendiano centinaia di persone, pubblicato numerose riviste, anche prestigiose, e organizzato diverse esposizioni.
Suo principale obiettivo era quello di promuovere e pubblicare autori liberali o esplicitamente di sinistra, anche estrema, come segno di libertà di stampa e apertura democratica.

Le riviste, o meglio le case degli artisti, perché spesso è di questo che parliamo, hanno sicuramente svolto un ruolo fondamentale nella creazione di una rete internazionale d’informazione e di scambio che ha permesso la circolazione e la diffusione delle posizioni di ricerca più avanzate. E sono anche soddisfatto di aver contribuito con i miei studi ad approfondirne la conoscenza.

Ma ora credo che sarebbe interessante studiare la nascita e lo sviluppo di questa rete attraverso l’applicazione ad essa della moderna Social Network Analysis, che studia le relazioni sociali e interpersonali. Il presupposto fondante è che ogni individuo relazionandosi con gli altri plasma e modifica il comportamento di entrambi. Lo scopo principale dell’analisi di network è appunto quello di individuare e analizzare tali legami tra gli individui.

Sarebbe interessante quindi una sua applicazione alla rete sociale del mondo dell’arte congiuntamente alla rete politica coesistente in quegli anni.
Sono sicuro che così potrebbe emergere non solo la coesistenza, se non la coincidenza, dell’organizzazione redazionale di alcune riviste d’artista con alcune riviste politiche, ma anche i vincoli o le pressioni che l’una, la politica, ha esercitato sull’altra, l’arte.

In buona sostanza è forse il momento di concentrarsi su queste “redazioni casalinghe” e metterle in evidenza come punti nevralgici, vale a dire punti delicati, difficili da maneggiare, in cui convergono interessi contrastanti, quello artistico e quello politico appunto.
Esempio che non faccio a caso ma con una ben precisa intenzione.

Sono profondamente convinto che se c’è un limite alle opere di poesia sperimentale, visiva in particolare, che ne riducono la forza, relegandole ad un preciso momento storico, è proprio il loro essere “engaged”, impegnate, engagé, vale a dire ideologicamente schierate, militanti.

Questo è un limite perché l’aspetto politico tende ad essere enfatizzato e divenire dominante, creando così uno schermo che impedisce l’accesso alla profonda innovazione semantica insita in queste opere.
La poesia visiva non è poesia politica. O per lo meno non è solo poesia politica.
Ed è, a mio modesto avviso, fuorviante insistere su questa interpretazione.

Non sto negando che la Poesia visiva propriamente detta, vale a dire quella riconducibile essenzialmente al fiorentino Gruppo 70, abbia agito, per lo meno inizialmente, con una forte componente politica, sposata e sostenuta in toto dai fondatori, attraverso riviste come Téchne, Gramma, Lotta Poetica, titolo quest’ultimo per altro emblematico di questo connubio, utilizzato anche per un libro del 2017 sul messaggio politico nella Poesia Visiva. Ma non va tuttavia dimenticato che il Gruppo 70 si scioglie nel 1968, esattamente l’anno zero a cui si fa risalire l’ondata d’impegno politico nell’arte !

Non si può negare l’attività politica e sindacale di Michele Perfetti, assieme a Vittorio Del Piano, prima nel Circolo Italsider e dopo nella Cooperativa Punto Zero” a Taranto, ad esempio, attività ben indagata da Michele Brescia. (11) Né l’impegno di Lucia Marcucci e altri poeti durante le consultazioni elettorali sull’aborto e sul divorzio.

Credo tuttavia che la Poesia Visiva raggiunga i suoi risultati migliori proprio quando si svincola da questo “impegno” contingente.

Ci tornerò in chiusura.

Stiamo ora sulle riviste e cerchiamo di rintracciare queste connessioni, queste sovrapposizioni, queste ingerenze.
Lo faccio, diciamo così, da sprovveduto perché non possiedo gli strumenti di uno storico e non ho svolto approfondite ricerche d’archivio in questa direzione. Forse, spero, qualcuno si prenderà la briga di farlo…. Così magari potrà smentirmi.
Voglio però lo stesso accennare a queste connessioni inerenti una rivista simbolo di questa promiscuità: Lotta Poetica, rivista principe di questa relazione italo-belga.

Sarenco è tra i fondatori di Lotta Poetica. Dai suoi racconti è anche l’ideatore del titolo. Del resto in più occasioni ha ribadito come per lui, in quegli anni sia stata una scelta tra la lotta armata e la lotta poetica, appunto. E durante tutta la sua vita ha fortemente ribadito, sia nelle opere che nelle dichiarazioni, questa sua netta presa di posizione, dichiarandosi poeta guerrigliero, sebbene si possa notare un radicale cambiamento nella sua produzione dalla fine degli anni Settanta.

Sfogliando la prima serie di Lotta Poetica, in particolare fino al numero 34 del 1974, è sorprendente vedere quante dichiarazioni politiche siano state pubblicate. In particolare della Lega-Marxista-Leninista.
Ma la sede bresciana della Lega Marxista-Leninista, era stata fondata proprio da Sarenco stesso !
Di fatto coincide, se non nella sede nella persona, con quella della rivista di poesia.
Non è un caso che la rottura con Bertini, che compare su tutte le copertine dei primi 12 numeri con tanto di fucile puntato al lettore, sia avvenuta proprio su questioni politiche.
Bertini, infatti, nonostante il suo atteggiamento minaccioso e armato, era contrario alla politicizzazione della rivista operata da Sarenco.
In buona sostanza: va bene la lotta finché rimane poetica. La lotta politica è un’altra cosa.

Anche Baj, che partecipò alla riunione fondativa, espresse subito le sue riserve distruggendo il titolo proposto da Sarenco trasformandolo in: Potta Luetica.
Modo sornione e scherzoso di collegare la lotta di classe alla deleteria malattia venerea che genera pazzia, conosciuta per anni come “mal francese” e quindi collegandola indirettamente al “Mai” francese.
Ora, ridurre la lotta di classe ad una questione di Potta,
(Per i non italiani: Potta è un termine dialettale/popolare per indicare il sesso femminile)
Dicevo, ridurre la lotta di classe ad una questione di Potta, per altro sifilitica, non è piaciuto molto a Sarenco. La rottura è stata inevitabile e spiega anche i diversi attacchi sferrati da Sarenco a Baj nel corso degli anni.

Ma ancora prima.
La rivista “Amodulo”, nata nel 1968 in netta contrapposizione a “Modulo” di Arrigo Lora Totino, verrà abbandonata da Sarenco dopo i primi 3 numeri proprio per dei contrasti politici. Infatti nei due numeri successivi (il 4° e il 5°. Quest’ultimo da me recentemente reperito nell’archivio di Ennio Bianco e ora conservato nella collezione Luigi Bonotto) scompare del tutto ogni proclama politico, sia esso firmato dalla Sinistra Universitaria, da Mao Tse Tung o da Sarenco.

Ricordo anche che il primo numero contiene un duro attacco alla seconda edizione di Fiumalbo, considerata una manifestazione “elettoralistica in favore del PCI” che propone una “situazione revisionista e da lacché”, che porta alle estreme conseguenze la rottura già avvenuta durante il festival tra Sarenco e Adriano Spatola che si erano impegnati in una lotta/rincorsa notturna durante la quale Spatola era indaffarato a cancellare le scritte politiche inneggianti a Mao e Lin Piao e i motti anticattolici che Sarenco vergava con vernice rossa sui muri del paesino.
Durante il primo festival avvenne anche un forte scontro tra il maoista Sarenco e il libertario Julien Blaine, come entrambi ricordano con un sorriso disincantato.
La frattura tra Sarenco e Spatola si ricomporrà solo molti anni dopo, come testimoniato dalla famosa foto sul numero 71 dell’estate 1985 di Doc(k)s in cui i due poeti si affrontano a braccio di ferro sotto lo sguardo sornione di Nanni Balestrini.

Nanni Balestrini, le cui scelte come direttore della rivista “Quinidici”, che diedero sempre maggiore spazio al movimento studentesco, portarono alla crisi della rivista stessa, la fuoriuscita di Adriano Spatola, Giulia Niccolai e altri poeti, e alla successiva chiusura della rivista nel 1969, proprio perché non si riconoscevano nella sempre più spiccata politicizzazione della rivista letteraria.

Ma tornando a Sarenco e Lotta Poetica, alle vicende immediatamente precedenti, è a mio avviso importante tenere sempre a mente questa doppia anima del poeta bresciano. Se al piano terra c’era la galleria da lui fondata e gestita, Il Centro La Comune (già di per sé una presa di posizione), in cantina c’erano le armi.
Almeno stando alle sue dichiarazioni. Ma se non le armi sicuramente dei legami poco chiari.
Ad esempio, come andò Sarenco in Cina nel 1966? E perché?
Su questo viaggio, nonostante Sarenco infarcisse il suo dire di numerosi aneddoti, il poeta bresciano ha sempre taciuto. Sappiamo solo che al suo rientro in Italia apre il già citato Centro La Comune, che era anche sede della Lega Marxista-Leninista d’Italia, proprio come conseguenza di questo viaggio durante la rivoluzione culturale proletaria.

Per finire questa mia digressione. Credo sia importante, se si vuole perseguire in questa lettura politica della poesia visiva, portarla fino in fondo ed indagare le effettive connessioni, convivenze, influenze, tra i due mondi. Verificare, ad esempio, chi finanziava effettivamente tutte queste riviste ed iniziative. In buona sostanza: sporcarsi le mani, abbandonare le certezze ed essere pronti ad accettare che i maoisti erano finanziati dalla CIA.

Ma ritorniamo alla questione di fondo.
Torniamo cioè alla mia convinzione, che è molto semplice e netta.
La questione politica, seppur importante, fa a mio modesto avviso problema ad una effettiva e puntuale lettura delle ricerche verbo-voco-visive, invi compresa la Poesia Visiva.

Se intendiamo con Poesia Visiva tutta la produzione verbo-voco-visiva del XX secolo, a partire dal Lettrismo, per dare un punto d’inizio sebbene arbitrario, l’essere engagé emerge come episodico e circoscritto.
É vero che il decennio che va dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta è stato fortemente caratterizzato da questo nefasto connubio, intendo quello tra arte (cultura) e politica, che ha generato una dicotomia antitetica e demonizzante nel mondo dell’arte. Ma ridurre l’apporto della Poesia Visiva, o meglio delle ricerche verbo-voco-visive, alle sole questioni politiche o sociali talvolta espresse è assolutamente ingiusto.

Per questo ritengo che un’attenta analisi di quei luoghi, di quelle redazioni, di quei nodi, per far riferimento alla Social Network Analysis, farebbero sicuramente emergere le influenze, non sempre positive, esercitate dalla politica sull’arte.

Ritengo inoltre che sia necessario, anche da parte nostra, intendo noi che ci occupiamo “da specialisti”, nel bene e nel male, di questa materia, uno sforzo per uscire da questa lettura. Uscire dalla logica degli schieramenti in lotta fra di loro, e ridurre l’importanza nella produzione di poesia sperimentale delle componenti squisitamente contingenti, politiche, in presa diretta sul contemporaneo. Aspetti questi che le indeboliscono legandole troppo ad un determinato momento storico.

Uscire da questa limitante interpretazione della poesia visiva ci permetterebbe di far emergere le implicazioni filosofiche e poetiche e rivalutare le profonde influenze eserciate su altri ambiti artistici e letterari.
Queste ricerche sono infatti una tappa di un percorso di elaborazione teorica che non ha niente a che vedere con la politica contingente ma molto con la espressione dell’uomo, intendo del suo modo di esprimersi e di interpretare il mondo e quindi di rapportarvisi. E soprattutto del suo rapporto conflittuale con la principale risorsa per assolvere a questo compito: il linguaggio.
E le opere di poesia visiva che si sono svincolate da questo limite costituito dall’impegno politico, si ergono a veri e propri emblemi. Vale a dire che riescono a condensare un’idea, un concetto in modo estremamente efficace e atemporale.

La specificità della Poesia Visiva risiede nella consapevolezza del cambio di paradigma avvenuto nella comunicazione umana. Un passaggio che segna il progressivo abbandono della retorica, intesa come raffinata eloquenza, come bello scrivere e bel parlare, in favore della laconicità disadorna dello slogan, con il conseguente impoverimento del lessico e una sempre maggiore pervasività delle immagini.
Un cambio iniziato proprio negli anni Cinquanta e di cui vediamo (e viviamo) le conseguenze nell’attuale enorme sviluppo della comunicazione social.

La poesia visiva è guerriglia semiologica, non guerriglia politica, bensì semiologica.
Quindi è una lotta, irregolare autonoma e di scarsa entità, che si concentra sui fenomeni di significazione ponendo al centro del suo agire le relazioni per cui un segno rinvia a qualcos’altro, in modo più o meno codificato.
Come ci ricorda Pingotti: “La sintesi del (mio) essere poeta tecnologico non sta tanto nell’utilizzo del medium, quanto piuttosto nell’analisi del linguaggio di un dato mezzo o del linguaggio usato per riferirsi a quel dato mezzo.” (12)
Da questo punto di vista, scardinando una comunicazione costituita che trasmette valori politici e sociali definiti, la poesia visiva è anche azione politica.

Ciò che è importante ricordare, ed è ancora Pignotti a dircelo, è che:
“Era una lotta contro i linguaggi, una forma di lotta contro i prodotti della neo civiltà tecnologica.(…) Uno scrittore, un letterato che si metta a fare la guerriglia, la lotta armata, resta uno dei tanti. Invece quello che può fare è operare sul linguaggio a livello rivoluzionario, Come Majakovskji, un linguaggio di lotta. Loro credevano che scendendo in piazza con Avanguardia Operaia o con Lotta Continua, che pure era un movimento più colto, si potesse servire il popolo, cosa che ho sempre trovato alienante, capace di distogliere dalla lotta vera.” (13 – Grassetto mio)

Infatti, anche nelle opere più politiche, più engagé, l’attenzione è sempre sui segni, verbali o iconici, sul loro utilizzo e sull’effetto di significazione che ne scaturisce.
In buona sostanza: non esiste un segno neutro e la poesia visiva, mettendo al centro della sua analisi questo assunto e portando la poesia in un ambito eso-letterario, apre le porte a nuove possibilità, a nuove forme di comunicazione. Il suo apporto è forse ancora da valorizzare pienamente.

Proverò a darne esempio leggendo una poesia visiva simbolo di questa ambiguità fuorviante: “Poetical licence” di Sarenco.

Quasi tutta la serie è caratterizzata da foto di lotta.
È una serie famosissima. Di questa serie, un’opera in particolare, spicca come capolavoro della produzione di Sarenco. È quella in cui si vede una giovane donna che sta per scagliare una pietra durante una manifestazione.

Gli scontri di piazza, la guerriglia urbana, così frequenti in quegli anni, in particolare in una città come Belfast dove la foto è stata scattata, quindi la lotta politica e la guerriglia urbana è messa in parallelo alle strategie di composizione poetica.
Lanciare un sasso durante una manifestazione è come fare poesia.
Niente di nuovo. Già nel 1930, il più grande atto surrealista, secondo Breton, sarebbe quello di scendere in strada e sparare a caso sulla folla….La rivolta assoluta.

Ma non si tratta di poeticizzare la lotta, operazione peraltro di per sé piuttosto banale visto che da che mondo è mondo i canti epici non sono altro che narrazioni di gesta belliche.
Al contrario si tratta di rendere alla poesia ciò che le è proprio, nel senso di restituire alla poesia ciò che le appartiene: la violenza, l’aggressività, la trasgressione.
In buona sostanza: rendere bellicosa la poesia. Operazione questa che non fa altro che svelare un segreto di Pulcinella, vale a dire mettere in evidenza la ferocia, la brutalità, l’abuso, che sta al cuore di tutta la poesia.
“La poesia è violenza” (14) titola un famoso scritto teorico di Eugenio Miccini del 1972 infarcito di slogan politici.
Ma al di la di questi slogan, ciò che resta è un dato essenziale.
Vale a dire che la poesia è un atto virulento. È forzare la lingua a dire l’impossibile. È un sopruso.
Creando metafore improbabili, inaudite, dissacranti, bellissime, i poeti stuprano la lingua,
costringendola a fare ciò che non le è proprio: dire l’indicibile.
È un avvicinarsi al nucleo incandescente del Reale per riuscire a dirne qualcosa.
Reale qui da intendere come precisa categoria introdotta da Lacan nel suo insegnamento.
In questo la poesia e la psicoanalisi sono vicine. Entrambe aprono il linguaggio ad un livello ultra-linguistico. Ultra-linguistico nel senso che c’è sempre nei due “dire”, quello analitico e quello poetico, qualcosa che va oltre, qualcosa che trapassa la parola, che la travalica e la rende altro. Entrambi gli ambiti di ricerca si confrontano quindi con qualcosa di estraneo alla parola, ma che si esprime solo attraverso di essa: il reale, appunto.

Quel reale che il soggetto tenta di dire anche nell’ingiuria verso il proprio simile, ma soprattutto nella bestemmia verso Dio, bestemmia che è solo l’ultimo grido di odio che intima all’Altro di offrire quelle garanzie di esistenza e di essere di cui il soggetto fa crudelmente difetto.
Anche su questo punto sarebbe interessante approfondire la questione ed indagare come la bestemmia e gli attacchi al monoteismo, di un Sarenco o di un Blaine ad esempio, abbiano una discreta tradizione e s’inseriscano in questa questione di forzatura del linguaggio che caratterizza questo primo secolo di avanguardie.
Ma visto che sto forse bestemmiando nel proporre questo ossimoro di una tradizione dell’avanguardia torniamo all’opera “Poetical Licence”.

La forza dell’opera di Sarenco, non sta nel rendere lirica la guerriglia urbana di Belfast, bensì nello svelare la violenza arbitraria della licenza poetica.
Per licenza poetica s’intende in fatti un errore voluto da parte del poeta, funzionale a rendere il suo componimento più incisivo. Ci troviamo quindi di fronte ad una cosciente forzatura. Non è un lapsus calami. L’errore è intenzionale ed in quanto tale è una forzatura, un abuso, una trasgressione. Un andare oltre i limiti. Limiti custoditi dalla lingua a salvaguardia dell’essere.
Ma la licenza poetica è uno degli strumenti più noti, consueti e consunti della poesia.
É lì dall’inizio della poesia stessa. Tanto da essere divenuta una banalità e un modo di dire entrato nel conversare quotidiano.
Allora l’operazione di Sarenco è un ritorno alle fondamenta della poesia. È precisamente ricordarcene la portata sovversiva e irriverente.
É questo a mio parere la forza e l’importanza di quest’opera e questo ha ben poco a che vedere con la politica.

Osserviamo quest’altra opera del 1974 della serie “Poetical licence”.
Dov’è la politica in questa foto di Giorgio De Chirico al mare con una sorridente giovane e bella donna?
Io, in tutta sincerità, vedo solo l’assoluta e ferma dichiarazione di uno stato di eccezione, di una extra-ordinarietà. Vale a dire che il poeta, l’artista, può compiere qualsiasi atto inaudito, scandaloso, amorale, sovversivo. Al poeta è permesso tutto.

É permesso anche usare immagini al posto delle parole e parole al posto delle immagini. Almeno è permesso da quando in Italia è nata la Poesia Visiva, unico movimento letterario d’avanguardia che esce prepotentemente dall’ambito letterario.

Grazie per la vostra attenzione.


NOTE

  1. Giorgio Maffei, Patrizio Peterlini, Riviste d’arte d’avanguardia. Gli anni Sessanta e Settanta in Italia; Ed. Sylvestre Bonnard, Milano, 2005
  2. Patrizio Peterlini, Sarenco: le riviste, la lotta. Storia di un esploratore dell’avanguardia, Ed. Nomadnomad, Verona, 2006
  3. Philippe Castelin, Docks Mode d’emploi. Histoire, formes & sens des poésies expérimentales au XX siècle, Ed. Al dante, Romainville, 2002
  4. Luciano Caruso, Corrado Piancastelli, Uomini e idee no. 18, Il gesto poetico. Antologia della nuova poesia d’avanguardia, Enzo Portolano, Napoli, 1968
  5. Stelio Maria Martini, L’impassibile naufrago. Le riviste sperimentali a Napoli negli anni ’60 e ’70, Guida editori, Napoli, 1986
  6. Elisabetta Mondello, Gli anni delle riviste. Le riviste letterarie dal 1945 agli anni Ottanta, Ed. Milella, Lecce, 1985
  7. Attilio Mangano, Antonio Schina, Le culture del Sessantotto. Gli anni Sessanta, le riviste, il movimento, Massari editore, Bolsena 1998 – Attilio mangano, Le riviste degli anni Sessanta. Gruppi, movimenti e conflitti sociali, Massari editore, 1998
  8. Marco Bazzini, Giorgio Maffei, Geiger – Tèchne. Edizioni di poesia e arte, Gli Ori, Pistoia, 2002
  9. Eugenio Miccini, Tèchne, in “NAC no. 1”, gennaio 1973
  10. Frances Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, Fazi editore, Roma, 2004
  11. Vedi: Michele Brescia, La Cooperativa Punto Zero di Taranto: poesia visiva come “unità di politica ed arte”, in B. Carpi De Resmini (a cura di), Lotta poetica. Il messaggio politico nella poesia visiva 1965-1978, Iacobelli editore, Roma, 2017
  12. Una forma di lotta. Conversazione con Lamberto Pignotti a cura di Benedetta Carpi De Resmini, in B. Carpi De Resmini (a cura di) “Lotta Poetica. Il messaggio politico nella Poesia Visiva 1965-1978”, Iacobelli editore, 2017
  13. Ibidem
  14. Eugenio Miccini, La poesia è violenza, in E. Miccini, “poesia Visiva, politica, pubblica”, Ed. Tèchne, Firenze, 1972