Le Grand Dépotoir

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Julien Blaine. Le Grand Dépotoir

La Presses du réel / Al Dante, Marseille, 2020

ISBN 9782378961435

Tutta la poesia sperimentale del XX secolo, sia essa poesia concreta, visiva, sonora, elementare, spaziale, digitale o, per usare un termine onnicomprensivo coniato da Adriano Spatola: Totale, si presenta come un oggetto spurio, difficilmente definibile, che gioca sulla propria ambiguità proponendola come valore estetico.
La commistione di più linguaggi ha creato opere indefinite, sporche, fantastiche, dei veri e propri mostri. Mostri da intendere però nell’accezione di chimere, esseri che sommano in sé le caratteristiche di più animali, che unite danno vita a qualcosa di straordinario.
La chimera, secondo Esiodo, aveva testa e corpo di leone, una seconda testa di capra sul dorso e una coda di serpente. Per Omero invece: corpo di capra, testa di leone, coda di drago e sputava fuoco. Al di là delle differenti descrizioni, gli elementi centrali sono la capra: ansia di libertà, sfizio, capriccio; il leone: la forza e il coraggio; e il serpente/drago: guarigione e avvelenamento, rinnovamento. Tutti elementi che entrano a pieno titolo nella storia dello sviluppo della poesia sperimentale e che ne definiscono, in qualche misura, anche il suo essere straordinaria, cioè fuori dall’ordinario. Perché la poesia sperimentale è stata sempre libera e capricciosa, coraggiosa e potente e profondamente rinnovatrice.
Ma per chimera s’intende, si sa, anche un’ipotesi assurda, un’utopia non realizzabile.
Ciò spiega forse perché, ancora adesso, la poesia sperimentale sia presa in così poca considerazione, contrariamente ad altre forme di arte pluridisciplinari, nate sempre nel secondo dopo guerra, che godono, al contrario, di grande considerazione.

Ma questa sua presunta assurdità non ha impedito a molti autori di divenirne i paladini, dedicando la propria intera vita alla diffusione e affermazione della poesia sperimentale.
Tra di essi Julien Blaine, con la sua passione per gli animali, in particolare gli asini e i cefalopodi, nome quest’ultimo che rimanda a qualcosa di assurdo: avere i piedi in testa.
Dunque, siamo in piena mitologia. Una mitologia contemporanea, quella della poesia, che vanta eroi straordinari come: Rimbaud e la sua catabasi, novello Orfeo che abbandona il canto per vendere fucili; Pound con la sua persecuzione in seguito all’accusa di follia, che noi leggiamo come ekstasis nel senso di innalzamento mentale del poeta assorbito dall’idea unica della poesia; Pasolini e il suo corpo smembrato dai cani di regime per impedirgli di parlare della verità del capitalismo predatore; e Julien Blaine: il poeta errante, il poeta urlante, il poeta corpo, il poeta in rivolta.

Se con la nascita delle avanguardie storiche la poesia ha iniziato un percorso che l’ha portata a perdere definitivamente il suo atteggiamento consolatorio e rassegnato divenendo uno strumento di lotta rivoluzionario, Julien Blaine ne incarna la forma più radicale.
Marsigliese di nascita e internazionale di spirito, sin dall’inizio della sua attività poetica, JB s’inserisce in un contesto di lotta e contestazione politica e sociale che lo porterà ad essere nel 1973, ad esempio, tra i fondatori di “Liberation”. Non solo quindi di riviste di poesia, sempre comunque caratterizzate da un forte spirito di lotta, come “Approches” o “Rhobo” o la fondamentale “Doc(k)s”, ma anche riviste ibride di poesia e lotta politica come “Geranonymo” e veri e proprie riviste-pamphlet politiche come “Pirate”.
Un atteggiamento che caratterizza fortemente anche tutta la sua produzione più specificatamente artistica e che trova nella pratica del Ch’I la sua sintesi. Attraverso questa pratica cinese risalente all’epoca Tang, Julien Blaine riesce a riversare la parte fisica della poesia, riconducibile al respiro e al ritmo, in una gestualità, a volte brutale, che aggredisce la carta e il linguaggio ingaggiando con esso un vero e proprio corpo a corpo.
La questione del corpo è sempre centrale in Blaine.
Un corpo che diviene segno e un segno che si fa corpo.
Un corpo che accoglie la scrittura nella forma dell’incisione, del tatuaggio, della ferita, segno tangibile delle innumerevoli performances agite da Blaine. Quindi: lettera che si fa ferita. E viceversa, una ferita che si fa lettera, come nella serie di opere, pubblicate poi da Blaine ne “Les Cahiers de la Cinquiemme Feuile”, in cui è presentata l’evoluzione della scrittura della lettera Q, ricollegandola alle sue origini ancestrali di rappresentazione del sesso femminile, oltre che di prima rappresentazione del soggetto.
Questo punto di contatto e separazione tra scrittura e corpo, tra linguaggio e gestualità, in buona sostanza tra uomo e animale, punto oscuro e insondabile, dilaniante e allo stesso tempo unificante, fonte di tensioni vitali e mortifere dell’essere umano, è il tema centrale del lavoro di Blaine.

Una forma radicale di lotta, quella di JB, che mira alla liberazione dall’oppressione del linguaggio: certo; dai vincoli della forma: ovvio; dalla dipendenza di un significato predigerito: sicuro!
Una lotta che ora si spinge ancora più avanti, facendosi radicale, definitiva.
Perché dobbiamo affrontare, infine, la questione e chiederci: che senso ha questa operazione inedita e sorprendente?
Perché fare del proprio lavoro, della memoria del proprio lavoro, una discarica?
Perché sbarazzarsi del proprio archivio?
Badate, non di donarlo a una biblioteca universitaria, o a un museo, ma trasformarlo in materiale da mercatino delle pulci.
Regalarlo.
E se proprio nessuno lo volesse, bruciarlo.
In buona sostanza, perché un artista decide di disfarsi della memoria della propria storia creativa, della propria vita d’artista?
Da un certo punto di vista è una domanda inquietante.
Soprattutto se consideriamo l’enorme importanza che gli archivi hanno assunto nel corso del XX secolo nel mondo dell’arte e come essi siano diventati argomento di importanti mostre all’inizio del XXI secolo.

Coerente fino all’estremo alla sua rivolta, alla sua azione politica provocatoria e dissacrante, Julien Blaine mette in atto un vero e proprio potlatch che fa onore all’ultimo degli indiani, al Geranonymo dell’arte.

Ad un primo sguardo, quello più semplice, più superficiale e immediato, tutta questa operazione appare come una provocazione.
È la chiave a cui allude Blaine nel suo avvertimento: “Evidemment ce serait plus pertinent, plus exemplaire, si j’étais etc.”
Blaine può certo abbandonare qualche cimelio della propria storia ma non di certo lo spirito battagliero e polemico che lo ha sempre contraddistinto nella sua lotta contro la stupidità, l’inutilità, la leziosità, la barbarie nel mondo dell’arte.
Un atto di lotta quindi, l’ennesimo, contro il mercato dell’arte e la sua spietata logica di profitto e omologazione che ci ha portato a essere circondati da straordinari oggetti vuoti.
Certo in questa lettura, il potlatch ha un suo senso. Esso è infatti l’esempio più conosciuto e studiato di economia del dono. Attraverso il potlatch si mostra la propria ricchezza e la propria importanza con la distribuzione dei propri oggetti più preziosi. Contrariamente ai sistemi economici mercantilistici, nel potlatch l’essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli. La logica dell’economia di mercato è quindi completamente invertita. E’ un meccanismo attraverso il quale vengono sottratti al processo mercantile dei beni. Un atto quindi teso ad alternarne il funzionamento.
Sicuramente una provocazione: non ho bisogno di tutto questo, non ho bisogno del vostro denaro, non ho bisogno della vostra ammirazione, e ve lo dimostro distruggendo ciò che voi bramate.
In buona sostanza: non sono un Peter Doig, un Damien Hirst, un Anselm Kiefer, un Zeng Fanzhi, un Jeff Koons o un Ai Weiwei qualsiasi (vale a dire una qualsiasi merce). Sono Julien Blaine e posso liberamente regalare o distruggere il mio lavoro.

Un grande atto di superiorità e d’indipendenza, forse di arroganza e superbia, ma tutto questo è mosso anche dalla generosità e dalla consapevolezza del proprio ruolo.
La distribuzione gratuita dei propri beni, o la loro distruzione rituale, affermano e rafforzano l’importanza e il rango di chi la esegue.
Consapevolezza: solo chi è libero da vincoli può decidere di sé stesso.
Generosità: da sempre alla base del lavoro di Blaine e che lo ha portato, come già ricordato, a barattare e regalare il proprio lavoro con il mondo.

L’attività di Julien Blaine, dai suoi inizi nei primi anni Sessanta, è segnata da una necessità incontenibile di diffondere nel mondo il suo lavoro. Sebbene questa tensione caratterizzi ogni artista, che vorrebbe plasmare il mondo della propria visione estetica, in Blaine essa prende le forme di un furor pubblicandi marcato da uno spirito prodigale che rasenta lo sperpero, che lo porta, nel giro di pochissimo tempo, a fondare e collaborare a numerose riviste d’arte e poesia e a partecipare a numerosi festival ed incontri internazionali. Ricordiamone solo due, entrambi estremamente importanti: “Destruction in Art Symposium”, organizzato da Gustav Metzger a Londra nel 1966, e “Parole sui Muri”, organizzato da Claudio Parmiggiani e Adriano Spatola a Fiumalbo, piccolo paese nell’appennino modenese, nell’estate del 1967.
Lo spirito di condivisione che ha animato tutti gli anni Sessanta, e che è stato assunto da Blaine come forma strategicamente importante per la diffusione del proprio lavoro, ha portato alla nascita di una rete internazionale di scambi e collaborazioni che ha letteralmente inondato il mondo di poesia e arte. Migliaia di lettere e pacchi, contenenti opere, libri, riviste, manifesti, brochure, viaggiavano da una parte all’altra del mondo trovando in alcuni luoghi un punto di accumulo, di sedimentazione. Questi luoghi erano spesso sedi di riviste, come “Geiger” dei fratelli Spatola in Italia, “Diagonal Cero” di Edgardo Antonio Vigo in Argentina, “Vou” di Kitasono Katué in Giappone, e “Doc(k)s” di Blaine in Francia. In questi luoghi di produzione, creazione e edizione si sono formati degli archivi straordinari, ricchi di materiali e informazioni. Veri e propri paradisi per gli studiosi della storia dell’arte del XX secolo.
Uno di questi è il Moulin de Ventabren, casa di Julien Blaine dove, oltre ai materiali inviati per la redazione di Doc(k)s, erano conservati quelli relativi alle già menzionate riviste precedenti: “Geranonymo”, “Rhobo”, “Pirate”, “Approches”, etc.

Ebbene sì, ancora una volta, un gesto di generosità estrema, se vogliamo di sperpero e spreco.
Ma quale coraggio !
Invece di adagiarsi nei tardivi riconoscimenti che costellano gli anni recenti, Blaine decide di azzerare tutto. Di eliminare ogni memoria di sé e del proprio lavoro, di togliersi quindi la possibilità di autocitarsi, di creare legami e rimandi ai propri lavori precedenti, e iniziare una nuova avventura da una tabula rasa. O meglio, dalle ceneri della propria vanità artistica.

Dunque si, caro Julien, partecipo volentieri al tuo potlatch e a questo pasto totemico.
Mi nutrirò ancora una volta della tua sacra chimera.